Bhramari Pranayama, il respiro della gravidanza

Avevo sentito parlare molto della respirazione, durante la gravidanza.
«Vabbè, grazie – direte voi – lo sanno tutti».
Ebbene, sapere le cose nella teoria o conoscere il tuo respiro quando potresti farti 13 piani a piedi senza battere ciglio, non è di certo come avere 8 chili di pargolo nell’utero e un diaframma che si rimpicciolisce come fagioli essiccati al sole.
La consapevolezza cambia tutto. E quando sei incinta, anche se credi di essere una yogi di terzo o quarto pelo, con studi e insegnamenti alle spalle, il corpo subisce delle trasformazioni che puoi sperimentare solo in questa particolare condizione.

E così anche il respiro cambia e il pranayama acquisisce tutto un altro valore. Oltre a essere considerato come una papabile ancora di salvezza per il travaglio di cui, ammettiamolo, abbiamo tutte un po’ paura.
Il respiro ha cambiato la percezione di me e lo ha fatto già molto prima di rimanere incinta. Il respiro mi racconta. E’ come un flusso di parole che entra ed esce dal mio corpo e dalla mia anima, suggerendomi chi sono in quel momento e riportandomi all’essenziale. Sono arrivata ancora più in profondità attraverso lo studio della meditazione Zen di cui la disciplina che insegno – Odaka Yoga – è largamente intrisa. Ogni momento è quello giusto per essere presenti, nel qui e ora, se si è respiro. «Quando lavi il riso, lava il riso», recita un detto Zen. Che significa? Restare nell’azione che stiamo compiendo. Come? Respirando. Consapevoli dell’acqua che scorre sui chicchi, che scivola nel lavello e delle nostre mani che sfregano. Niente più di questo. Il respiro è la chiave che ci fa restare lì, nell’attimo. E possiamo respirare e meditare anche quando laviamo il riso.

Per questo che, in attesa del mio travaglio (di cui forse poi vi racconterò) sul respiro ho puntato proprio tutto. Non solo perchè lo considero un’ancora di salvezza per alleviare il dolore, ma uno strumento prezioso per godermi il momento.
Portare più ossigeno nel corpo, peraltro, serve anche al mio Lorenzo nel pancione.

Uno dei respiri più importanti, su cui faccio molto affidamento è il respiro del filo d’oro.  Il respiro del filo d’oro consiste nel respirare profondamente alla base della pancia, sentendola espandersi verso l’esterno, e nell’espirazione, dal più piccolo buco della bocca, espirare lentamente, visualizzando un filo d’oro che esce dalle labbra.

Un altro respiro utile è quello del cavallo. Questo respiro, in cui si espira facendo vibrare le labbra e suonando come un cavallo, aiuta a rilassare le labbra e la bocca. Dato che la mascella è direttamente collegata al bacino, è importante continuare a rilassare la mascella e la lingua, specialmente durante il travaglio. Un altro modo per farlo è sorridere. Anche se credo che durante il travaglio non mi sarà così agile.

La vera chiave di volta, tuttavia, è il Bhramari Pranayama. Le vibrazioni di questo respiro sono buone per l’ansia e recenti studi hanno dimostrato che può essere utile per prevenire e ridurre la preeclampsia, patologia  caratterizzata da un innalzamento eccessivo della pressione sanguigna (ipertensione) che può svilupparsi in gravidanza. Il pranayama è, infatti, noto per ripristinare l’equilibrio tra due componenti – simpatico e parasimpatico – del sistema nervoso autonomo. Dato che l’eccesso di attività simpatica è considerato come uno dei fattori determinanti la preeclampsia, il Bhramari Pranayama, è stato segnalato per stimolare il sistema nervoso parasimpatico, questo studio ha dimostrato come l’iper-reattività delle donne gravide – dopo due mesi di Bhramari Pranayama – sia stata convertita in ipo-reattività. Altri parametri come la pressione sanguigna basale, l’aumento della pressione sanguigna e la frequenza del polso sono stati ridotti significativamente.

Un altro studio condotto nel ’93 dal Monghyr Hospital, India, in collaborazione con la Bihar School of Yoga, ha evidenziato nelle donne gravide che hanno praticato il Bhramari Pranayama:

  • un minor numero di aborti spontanei (2% rispetto all’8%).
  • un minor numero di nascite premature (2,6% rispetto al 5%).
  • in media un travaglio più breve del 25% circa.
  • generalmente poco dolore durante il travaglio.

Per fare questo respiro inspirare attraverso il naso, chiudere le orecchie con le dita ed espirare facendo un rumore mmmmmmm: è importante che i gomiti siano tenuti verso l’esterno in modo che il petto sia aperto. Poi l’espirazione avviene attraverso il naso, mentre la bocca è chiusa (ma la mascella è tenuta così rilassata che i denti non si toccano). Durante l’espirazione si produce un ronzio dolce, profondo e relativamente forte, come quello di un calabrone. Diventate un tutt’uno con queste vibrazioni e lasciate che riempiano la vostra testa. Ripetete per 9 volte.

Non respirate soltanto, ma usate anche i Bandha, gli unici due che si possono utilizzare durante la gravidanza. Il blocco del mento (Jalandhara Bandha) e il blocco delle radici (Mula Bandha) sono anche usati  per rafforzare la pratica. Essi stimolano i flussi di energia più sottili (nadi) e influenzano, simultaneamente, la pressione sanguigna, il battito cardiaco e l’apporto di sangue in certe parti del cervello, oltre a mantenere uno stato di rilassamento nel cervello. Allo stesso modo, l’ipotalamo e la ghiandola pituitaria sono stimolati. Si trovano al centro del cervello e sono responsabili del controllo del sistema nervoso autonomo e del sistema ormonale nel corpo umano. E chi ha sperimentato la gravidanza, sa di certo quanto gli ormoni siano determinati per tutti i nove mesi di gestazione.

Amo alla follia questo respiro. Il nome deriva dalla parola per il calabrone nero indiano, Bhramari, ma l’aggettivo bhramarin può anche significare “dolce come il miele” in sanscrito o “ciò che produce estasi”. L’estasi è come la meditazione: uno stato di equilibrio tra trascendenza e presenza. Uno stato in cui le onde alfa si manifestano. Si tratta di un’attività elettrica in una banda che va da 7,7 a 12,5 Hz. Durante una meditazione profonda, la frequenza può scendere ulteriormente. Tuttavia, gli studi dimostrano che in certe situazioni i praticanti esperti possono generare un’attività con una rara ampiezza nella gamma che si estende da 32 a 100Hz.
Nel 2009, la rivista Consciousness and Cognition ha pubblicato un altro studio sul bhramari pranayama. In questo studio ha esaminato l’attività del cervello durante il ronzio. I risultati hanno mostrato che durante questa fase dell’esercizio, anche per i principianti, c’era una presenza di onde gamma.

Tutto ciò è fantastico. Credo che Bhramari Pranayama possa avere davvero effetti benefici sulla mia gravidanza e, mi auguro, anche sul travaglio che mi appresterò a vivere tra poco tempo. Ma tutte le tecniche di respirazione sono importanti e utili.

Il respiro Ujayyi è il respiro che pratico quotidianamente. A volte non me ne accorgo nemmeno perchè mi ritrovo a praticarlo in molteplici occasioni della mia vita quotidiana, non solo quando faccio yoga. Il respiro Ujjayi è il respiro della vittoria. In questo tipo di Pranayama, i polmoni sono completamente espansi e il petto è gonfiato come quello di un conquistatore vittorioso.
Il suono del pranayama Ujjayi serve a due scopi: uno, stimola le nadi, o canali energetici, nei seni e nella parte posteriore della gola, che, a sua volta, promuove la chiarezza mentale e la concentrazione. E due, fornisce un suono a cui aggrapparsi, in modo che la mente possa diventare più calma. Quando il suono oscilla, anche la mente oscilla. Il respiro Ujjay è anche chiamato il respiro dell’oceano. Per praticarlo, si contrae la gola mentre si inspira e si espira in modo da poter sentire un leggero sibilo. Sia l’inspirazione che l’espirazione devono essere fatte con la bocca chiusa, respirando solo attraverso le narici. Il respiro Ujjayi regola il riscaldamento del corpo. L’attrito dell’aria che passa attraverso i polmoni e la gola genera calore interno al corpo. È simile a un massaggio per gli organi interni; quando il nucleo si riscalda dall’interno, il corpo si prepara per la pratica delle asana. Questo calore rende lo stretching più sicuro mentre gli organi interni possono essere puliti dalle tossine che si sono accumulate.

Insomma, il respiro fa la differenza, che siate gravide o abbiate semplicemente bisogno di sentirvi di più nel qui e ora. Lo so, è un concetto di cui spesso abusiamo e il respiro qualcosa che diamo per scontato. Se facciamo yoga, se pratichiamo gli asana, spesso siamo convinti di saper respirare, ma lo osserviamo davvero quel respiro? E quel respiro, ci racconta di noi? Ci guida, ci fa comprendere chi siamo? Credo che questo sia fondamentale.

E come raccontano i maestri Zen, non è necessario che vi ritagliate un altarino dove meditare: ogni momento è un buon momento per sentirsi presenti. Basta restare nel respiro.

Valentina Ferrero. Ho iniziato a fare yoga quasi per caso, quando ero ancora una giornalista, un po’ come accade spesso a chi poi decide di fare dello yoga la sua vita. Perchè? Banalmente perchè mi ero stufata della routine frenetica che mi teneva legata al pc a scrivere, tutto il giorno, tutti i santi giorni. E che mi aveva fatto perde l’amore mio più grande, quello per la poesia e per la comunicazione attraverso i racconti. E insieme – a causa della routine – avevo perso anche un bel po’ di altre cose: emozioni, sensazioni, voglia di mangiare cibo buono, voglia di abbracciare, di baciare.

Qualcuno la chiama felicità e, in effetti, non ha tutti i torti.Lo yoga mi ha reso felice. E’ andata a stimolare tutti quegli ingredienti (sensazioni, emozioni) e li ha rimessi a posto. Al loro posto. Quello che avevano prima. Così ho lasciato perdere un po’ di cose – nel frattempo ho anche perso il lavoro di giornalista – e ho dato una sterzata alla mia vita.Volevo essere più consapevole: unirmi al tutto. Essere un Uno e tornare a emozionarmi. Che è poi l’essenza vera e più intima dello yoga.

E così… eccomi qui. Oggi pratico yoga, faccio corsi, scrivo di yoga, parlo di yoga, rompo le scatole al mio compagno tutto il giorno sullo yoga (e lui non mi ha ancora mandato a stendere – ed è una grande cosa). Attualmente insegno in una piccola cittadina ai piedi delle montagne piemontesi, Pinerolo.

Odaka Yoga è il percorso che ho scelto, anche se è più appropriato dire che è stato lui a scegliere me, in qualche modo. E’ una delle discipline e dei metodi più innovativi dello yoga, nato da oltre trent’anni di ricerca e sperimentazione da parte di due italiani, Roberto Miletti e Francesca Cassia. Odaka Yoga parte dall’acqua, da quell’elemento che è fondamentale per la nostra vita e del quale siamo principalmente costituiti. Un elemento che non ha forma, ma che può assumere tutte le forme, fluendo libero.

Coronavirus e relatività: come fluire con gli eventi inaspettati

Vi siete mai chiesti perchè il fiore di Tarassaco è giallo? Dietro casa mia ce ne sono a palate, del resto questo è il loro periodo. Sbocciano nei prati di campagna come i funghi durante il periodo autunnale. Mia nonna andava pazza per il Tarassaco, non tanto per il fiore, quanto piuttosto per la pianta. Avete mai mangiato le foglie di Tarassaco? Qua in Pianura, una volta, raccogliere il Tarassaco per fare l’insalata era una tradizione, segnava l’inizio della primavera. Ora no, non più. C’è troppo inquinamento per poter pensare di mangiarlo, troppi fertilizzanti.

Quelli dietro casa sono belli da guardare: mi siedo tra l’erbetta appena tagliata e li osservo. Dureranno il tempo di qualche giorno, per poi trasformarsi in soffione e svanire nel vento come piccoli paracaduti, trasportatori di vita.
Il fiore di Tarassaco giallo e il soffione sono la stessa cosa o sono due cose diverse e distinte? E il prossimo anno, da quella pianta di Tarassaco nascerà un nuovo e diverso fiore giallo e un nuovo e diverso soffione o saranno gli stessi di quest’anno? No, in realtà non vi sto chiedendo se è nato prima l’uovo o la gallina. E neppure di dare una risposta ‘matematica’, convenzionale, linguistica a questi quesiti. Non vi chiedo neppure di pensarci. E’ l’intuito, la prima impressione, quella che conta.

Nel ciclo naturale della Vita è necessaria la Morte. Il Tarassaco si – in qualche modo – ‘snatura’, trasformandosi e in qualche modo perdendo la sua forma di fiore giallo per mutare in soffione. E quando il soffione ‘muore’, cioè si sgretola in mille paracaduti (perdendo la sua forma originaria, ma soprattutto quella che noi abbiamo attribuito essere la sua forma originaria), lo fa per la Vita, per generare nuova Vita.
Così, di primo acchito, mi verrebbe da dire che fiore di Tarassaco coi petali gialli, soffione e paracaduti portatrici di vita sono la stessa cosa.
Non c’è dualità, distinzione: l’Essenza Divina è il flusso della trasformazione stessa.

Secondo lo Zen non vi è differenza tra Vita e Morte, Luce e Buio, Forma e Spazio. L’uno è la versione dell’altro, come una moneta non potrebbe esistere senza avere due facce. Nulla, per la verità, potrebbe esistere, essere senza il suo opposto.

Dalla storia del tarassaco si evincono diverse cose:

  • fiore giallo non potrebbe esistere senza il soffione e viceversa;
  • fiore giallo e soffione sono, in realtà, due classificazioni che abbiamo, per così dire, inventato noi, con il nostro linguaggio per descrivere un fenomeno che ai nostri occhi appare diverso per forma (ma siamo sicuri che lo sia anche per sostanza?)
  • il flusso inarrestabile della trasformazione che NON possiamo fermare con il nostro Ego;

Nel momento in cui scrivo, seduta sul divano di casa, mio zio sta guardando il telegiornale. In onda, come al solito, qualche servizio in cui si parla del Coronavirus. «Progresso uguale Regresso». E’ una frase che ha sempre detto, ma ultimamente gliela sento dire più spesso. Lui proprio ce l’ha a morte con tutti i nostri cellulari, i social, gli schermi. Del resto, il Regresso è l’altra faccia del Progresso.

Sembra un’affermazione ovvia e banale, ma in verità ci hanno insegnato a classificare e separare le cose, qualsiasi cosa, perciò con la nostra mente razionale in realtà noi non pensiamo che il Regresso sia l’altra faccia del Progresso. Nella lotta all’evoluzione crediamo che ogni cosa sia il progresso dell’altra, perciò dovremo senza subbio, sempre e comunque andare verso un miglioramento delle cose.
Io mi sono guardata un po’ intorno in questi mesi, specie in queste ultime e settimane e, scusatemi, io non credo di aver visto tutto sto progresso.
Perciò mi vien da confermare: Progresso uguale Regresso. Ma non perchè ce l’ho con i telefonini, la scienza, le industrie alimentari che deforestano migliaia di ettari di giungla per predisporre allevamenti intensivi. No, ma solo perchè Progresso e Regresso sono la stessa cosa. Se c’è uno c’è l’altro e viceversa.

E in tutto questo flusso di non dualità, di ‘opposti-reciproci’ si inserisce anche il nostro Coronavirus.

Sta nel flusso delle cose, in questa onda infinita ed eterna che ci accompagna e dove gli opposti sono sinonimi di una sola entità, così come il suono non potrebbe esistere senza il silenzio e viceversa, in una costante relatività. E noi non siamo ne più ne meno che quel flusso.
Chi conosce a fondo lo Yoga avrà senza dubbio sentito parlare di Maya, l’illusione. Così è Maya, il nostro voler per forza separare il fiore giallo di Tarassaco dal soffione, il Progresso dal Regresso, il Bene dal Male. Questo è solo un ‘prodotto’ della nostra mente logica, mentre la suddivisione di, fatto, è solo illusoria. Classifichiamo, cataloghiamo, controlliamo. Impacchettiamo tutto, bello sistemato, con i numeri sopra e le lettere in ordine alfabetico.

La nostra frustrazione (che erroneamente cerchiamo di sconfiggere con lo Yoga) è data dal fatto che ci aggrappiamo alla Vita o, meglio, al lato che consideriamo essere buono della medaglia, senza comprendere che un lato – per così dire – considerato ‘buono’, prevede anche un lato considerato ‘non buono’.

Chi è già stato in India almeno una volta, lo sa bene quanto gli opposti, in questo Paese, possono perdere la loro valenza. Vita e Morte corrono parallelamente e molto di ciò che per loro costituisce la ‘realtà’ noi la consideriamo paradosso. Pensate alla vacca, per loro Sacra e per questo lasciata libera dagli umani, ma costretta a cibarsi della plastica che trova per strada, abbandonata dagli stessi che credono nella sua divinità. Giusto? Sbagliato? Dipende dal nostro punto di vista.
Di fatto anche lo Yoga diventa vano se eseguito per raggiungere uno scopo, come può essere, ad esempio, liberarsi dalla frustrazione. «Desidero non essere frustrato». E come ogni Yogini sa perfettamente, il desiderio è qualcosa che non potrebbe essere contemplato nello Yoga. Capita spesso, in questo viaggio che vogliamo compiere verso la liberazione, che corriamo il rischio di ‘desiderare di non desiderare’ e di rimanere nel pantano.

Lo Zen ci insegna che non c’è nulla da raggiungere, nulla da afferrare. Che poi alla fine è la stessa cosa che ci insegna lo Yoga, se sappiamo conoscere a fondo il suo significato essenziale: UNIONE. C’è una bella frase che sta sulla copertina posteriore del libro di Alan Watts «La Via dello Zen». Immagino sia una frase sua, di Alan Watts, anche se non ci sono i crediti. Beh, questa frase per me è stata come un secondo riaprire gli occhi, come poi tutto ciò che letto nel libro. Questa frase recita: «Non si pratica lo Zen per divenire Budda; lo si pratica perchè si è Budda sin dall’inizio». E questo è meraviglioso.

Nella nostra pratica di Odaka Yoga siamo soliti agire senza sforzo, nel fluire costante del movimento che non è mai statico, ma cambia velocemente creando forme diverse alle quali non saprei neppure dare un nome e non avrebbe senso darlo in realtà. Il ‘nome’ è una cosa che abbiamo creato noi per dare delle spiegazioni a cose, solo per poter comunicare fra di noi. Con Odaka Yoga creo delle forme, ma è sempre il mio corpo che le crea. Quelle ‘forme’ e il mio corpo sono la stessa cosa. Non c’è differenza tra la mia posizione eretta e supina: cambia solo il punto di vista dell’osservatore.
Oltre alla pratica fisica, di Odaka Yoga amo la teoria, la filosofia che mi ha indotto a concepire la vita in modo estremamente relativo, come una danza giocosa di creazione e distruzione che non sono altro che la stessa identica cosa. Questo è veramente interessante. Poiché fa comprendere quanto il filo conduttore delle cose sia il medesimo per tutto.
Non dico che sia semplice fluire nel flusso delle cose. Dobbiamo dimenticare ciò che ci hanno insegnato e abbiamo secoli e secoli da dimenticare. E’ un processo giornaliero, ma non credo sia impossibile.

Così il Coronavirus è solo un altro evento della ruota. E anche io ho visto la Morte, anche da piuttosto vicino e anche più volte. Come tutti noi. Li vedete i documentari alla TV? Credo di sì, in questo periodo di TV ne vediamo tanta, qualche documentario ce lo saremo sicuramente passato. Tra gli animali esistono guerre fratricide. In quello che è rimasto della catena alimentare diverse specie si debbono mangiare per sopravvivere. Mai come nella catena alimentare Vita e Morte diventano la stessa cosa. Ma su un piano più alto quelli che noi possiamo considerare ‘omicidi’ producono armonia. Credete che questo non avvenga anche nel nostro corpo? Nel nostro sangue ci sono lotte sanguinarie (scusate il gioco di parole) tra particelle. Ma se non succedesse non potremo essere in salute. Ciò che su un piano può sembrare ‘ingiusto’ su un altro è armonia.

Tutto questo è a dir poco strabiliante, non credete?
Quindi, vi siete mai chiesti perchè il fiore del Tarassaco è giallo?

Valentina Ferrero. Ho iniziato a fare yoga quasi per caso, quando ero ancora una giornalista, un po’ come accade spesso a chi poi decide di fare dello yoga la sua vita. Perchè? Banalmente perchè mi ero stufata della routine frenetica che mi teneva legata al pc a scrivere, tutto il giorno, tutti i santi giorni. E che mi aveva fatto perde l’amore mio più grande, quello per la poesia e per la comunicazione attraverso i racconti. E insieme – a causa della routine – avevo perso anche un bel po’ di altre cose: emozioni, sensazioni, voglia di mangiare cibo buono, voglia di abbracciare, di baciare.

Qualcuno la chiama felicità e, in effetti, non ha tutti i torti.Lo yoga mi ha reso felice. E’ andata a stimolare tutti quegli ingredienti (sensazioni, emozioni) e li ha rimessi a posto. Al loro posto. Quello che avevano prima. Così ho lasciato perdere un po’ di cose – nel frattempo ho anche perso il lavoro di giornalista – e ho dato una sterzata alla mia vita.Volevo essere più consapevole: unirmi al tutto. Essere un Uno e tornare a emozionarmi. Che è poi l’essenza vera e più intima dello yoga.

E così… eccomi qui. Oggi pratico yoga, faccio corsi, scrivo di yoga, parlo di yoga, rompo le scatole al mio compagno tutto il giorno sullo yoga (e lui non mi ha ancora mandato a stendere – ed è una grande cosa). Attualmente insegno in una piccola cittadina ai piedi delle montagne piemontesi, Pinerolo.

Odaka Yoga è il percorso che ho scelto, anche se è più appropriato dire che è stato lui a scegliere me, in qualche modo. E’ una delle discipline e dei metodi più innovativi dello yoga, nato da oltre trent’anni di ricerca e sperimentazione da parte di due italiani, Roberto Miletti e Francesca Cassia. Odaka Yoga parte dall’acqua, da quell’elemento che è fondamentale per la nostra vita e del quale siamo principalmente costituiti. Un elemento che non ha forma, ma che può assumere tutte le forme, fluendo libero.

Perchè lasciare andare ci rende liberi

Quando ho cominciato il mio corso di formazione per diventare un’insegnante di Odaka Yoga c’era una frase che Francesca, mia formatrice e fondatrice della disciplina, mi ripeteva sempre: Lascia Andare

Ed è una frase questa, «Lascia Andare» che puoi sentire spesso quando vai a una lezione di yoga, qualsiasi sia lo stile che hai scelto per te, in questo momento. E devo ammettere che Francesca non è stata l’unica persona a suggerirmi di lasciare andare, spesso, nella mia vita.

Nell’ultimo anno ho sperimentato diversi livelli di ansia (sì, perchè anche se fai yoga da tempo, non sei di certo esente a questo genere di sensazioni). A volte l’ansia mi ha permesso di vivere normalmente, altre volte è stato più difficile. In certi punti, se qualcuno mi avesse detto di “lasciar andare”, posso garantire che più che compassione avrei provato seri istinti omicidi. Niente di personale ovviamente.
Se sei pieno di collera o ansia e qualcuno ti dice che devi lasciare andare, spesso la prima sensazione è quella di sentirsi fraintesi, come se le tue emozioni fossero cose di poco conto e non valesse la pena spenderci tempo, respiro, pensieri.
La verità è che molto spesso ciò che sei oggi non è altro che il risultato di ciò che hai vissuto prima.

Ho sempre avuto la smania di controllare le cose, in modo che tutto andasse come avevo pianificato, con i miei preconcetti, le mie idee. Se mi affezionavo a un’idea, poi quella doveva materializzarsi, un po’ come il coniglio nel cappello del mago, in uno spettacolo di magia. Alla fine quell’idea controllava me e ci rimanevo imbrigliata. Sono rimasta imbrigliata nella stessa idea per buona parte della mia vita.
Spesso non siamo consapevoli di tutte queste idee che vivono dentro di noi, di come di definiscono e, spesso, ci controllano.
Certamente non lo ero. Fino a quando ho incontrato lo yoga e ho capito che le mie idee ed io eravamo due cose diverse. E che, in verità, non mi rappresentavano. Ma proprio per niente.

Come l’ho capito? Con un ascolto profondo.

E magari tu mi dirai che non hai la più pallida idea di come fare ad ascoltarti, anche se sai che effettivamente è l’unica strada percorribile.
L’ascolto profondo è il processo di connessione vera e propria con noi stessi e con la nostra vita. Non è tanto una tecnica specifica quanto un approccio a come riceviamo e rispondiamo a noi stessi e agli altri.
Negli ultimi 5 anni, l’ascolto profondo mi ha aiutato a riprendermi da ferite, malattie e dolore. Mi ha aiutato a capire meglio le mie relazioni stimolanti e ad avvicinarmi alle persone che sono importanti per me.

Praticando e insegnando ho scoperto molte cose di me e della società in cui vivo.
Vale a dire:
La maggior parte di noi è abituata a vivere la vita come una serie di reazioni a ciò che sta succedendo intorno a noi.
La maggior parte di noi si sente stressata e sopraffatta per la maggior parte del tempo.
La maggior parte di noi vive con la tensione nel nostro corpo che sta devastando la nostra salute.
La maggior parte di noi soffre di ansia e non sa perché nasce.
La maggior parte di noi porta in giro potenti narrazioni emotive – le “storie” che ci raccontiamo del nostro dolore non digerito – e non siamo sicuri di come guarire i danni del passato.
La maggior parte di noi non capisce come cambiare le abitudini che ci tengono bloccati.
E la maggior parte di noi non sa come essere gentile e compassionevole con se stesso, condizione che ci permette di evolvere.

Ma la verità è che lo stress non è davvero il problema. Il problema è la risposta a quello stress che, in altre parole, non è nient’altro che lasciar andare.
Negli Yoga Sutra di Patanjali si parla anche di Non-Attaccamento.

Per molto tempo è stato il mio cruccio e il non attaccamento mi sembrava qualcosa di veramente impossibile da realizzare.
Come si può avere compassione ed essere distaccati? Come possiamo prenderci cura degli altri, avere ambizioni ed essere distaccati? Come possiamo avere figli, amanti, motivazioni, carriere ed essere distaccati da tutto questo?
E’ frustrante. Come posso avere abbastanza soldi per mantenere mio figlio e lasciare andare allo stesso tempo, lasciando che le cose accadano da sé, senza rimanere intrappolata in tutto questo?

Credo che la prima cosa da cui partire per iniziare questo processo di ‘lasciare andare’ (che probabilmente durerà tutta la vita), è la consapevolezza che tutto è in movimento. Un movimento continuo. Il mio padrino semplificherebbe in modo forse un po’ cinico che niente è per sempre. E detta così fa un po’ paura perché il cambiamento è, per sua natura, verso qualcosa che non conosciamo, che non possiamo controllare e che quindi ci spaventa. Ma non possiamo mai sapere ciò che è bene o male per noi, in questo momento.

In Odaka Yoga aiutiamo questo processo – quello di lasciare andare – attraverso il flow, attraverso movimenti circolari, assimilabili alle onde del mare, che non hanno né un inizio né una fine.
Così non esiste una posa da raggiungere, un punto d’arrivo, ma un fluire di movimenti costanti che, potenzialmente, potrebbero essere eseguiti senza fine. Il nostro corpo, così, può provare a lasciare andare, senza la frustrazione di dover per forza raggiungere qualcosa. E se il corpo si lascia andare è anche molto più facile che lo faccia la mente. Con questi movimenti raggiungiamo uno stadio in cui corpo e mente sono come ‘sospesi nell’eterno ora’. Con allungamenti e posizioni facciamo spazio nel nostro corpo e spazio nella nostra mente. Fare spazio significa anche ‘lasciare andare’ quello che non ci serve, compresi pensieri, idee, problemi a cui ci siamo aggrappati e che ci controllano.
Questo non significa che dobbiamo eliminare delle ‘cose’, ma lasciare che siano. Questo è l’atteggiamento con cui possiamo fare spazio. Piuttosto che allontanare parti di noi, stiamo creando un ambiente che ci permette semplicemente di allentare la presa. Non dobbiamo sistemare nulla. Tutto quello che stiamo facendo è portare un’attenzione tenera e non giudicante al nostro corpo e fare spazio a tutto ciò che ci vive. È così che inizia il processo di cambiamento: con la consapevolezza che tutto è in movimento e con l’accettazione.

Niente scompare mai
finche’ non ci insegna
quello che dobbiamo sapere.
— Pema Chödrön

Negli Yoga Sutra di Patanjali questo atto ha un nome specifico: Aparigraha. Aparigraha ha molte traduzioni. Nella sua forma più pura, assomiglia al vairagya, la parola sanscrita per distacco e rinuncia. È il cammino che i santi uomini dell’India, i sadhus, prendono quando si lasciano tutte le cose terrene alle spalle e iniziano una vita di austerità.
Non dobbiamo prendere questa strada austera per imparare che le cose che chiamiamo ‘possedimenti’ possono creare follia. Abbiamo solo bisogno di guardare intorno a noi. Siamo una società di “stoccaggio”. Di scatole, armadi, scarpe vecchie che non useremo più, ricordi, relazioni. Cose che non usiamo ma dalle quali non abbiamo la minima intenzione di separarci. Non è che non dovremmo godere di oggetti materiali, ma da qualche parte lungo la strada siamo diventati accaparratori di essi. “Queste cose qui – sono mie”, diciamo, e le mettiamo tutte in una scatola sotto il letto.

Quando abbracciamo l’Aparigraha, diventiamo come l’uccello in erba. Non siamo nati per rimanere aggrappati a un ramo. Siamo nati per volare.
E lo stesso vale per le emozioni, la rabbia, la gioia, la delusione, l’euforia, la tristezza.
Per iniziare a praticare l’Aparigraha dobbiamo lasciar andare parte del bagaglio fisico, emotivo e mentale che abbiamo accumulato nel corso del nostro viaggio. Quella scatola di foto ricoperta di polvere che guardiamo ogni settimana? Possiamo lasciar perdere. Il rapporto che non si sente mai veramente stabile? Anche questo può andare. Le credenze, le opinioni e i giudizi? Anche loro devono essere abbattuti. Quando ci lasciamo andare, cresciamo.

Con il tempo ho capito che la pratica fa davvero qualcosa di miracoloso, indipendentemente dal fatto che si creda o meno in qualcosa. E anche il ‘lasciare andare’ diventa un processo di consapevolezza, anche per chi, come me, vive nell’ansia costante.
Il nostro Sensei, Roberto Milletti, fondatore di Odaka Yoga, ci racconta spesso una parabola sul comportamento delle scimmie che ben si addice a spiegare la capacità di lasciare andare. Ci racconta di anfore ricolme di noccioline, lasciate come esca per catturare i piccoli animali. La scimmia, vorace e alla ricerca di cibo, infila la sua mano nell’anfora, alla ricerca delle noccioline che riesce ad afferrare in un pugno. All’atto di estrarre la mano per mangiare le noccioline, quello stesso arto rimane intrappolato nell’anfora, impedendo alla scimmia di scappare. Potrebbe sfuggire all’esca ed essere libera solo lasciando andare le noccioline. Trattenerle, invece, le impedisce di avere spazio per sfilare il braccio dall’anfora ed essere libera. Così, la scimmia, vorace e incapace di lasciare andare le noccioline, viene presto catturata.

Ecco il concetto, semplice, ma essenziale: trattenere rende prigionieri, lasciare andare rende liberi.

Valentina Ferrero. Ho iniziato a fare yoga quasi per caso, quando ero ancora una giornalista, un po’ come accade spesso a chi poi decide di fare dello yoga la sua vita. Perchè? Banalmente perchè mi ero stufata della routine frenetica che mi teneva legata al pc a scrivere, tutto il giorno, tutti i santi giorni. E che mi aveva fatto perde l’amore mio più grande, quello per la poesia e per la comunicazione attraverso i racconti. E insieme – a causa della routine – avevo perso anche un bel po’ di altre cose: emozioni, sensazioni, voglia di mangiare cibo buono, voglia di abbracciare, di baciare.

Qualcuno la chiama felicità e, in effetti, non ha tutti i torti.Lo yoga mi ha reso felice. E’ andata a stimolare tutti quegli ingredienti (sensazioni, emozioni) e li ha rimessi a posto. Al loro posto. Quello che avevano prima. Così ho lasciato perdere un po’ di cose – nel frattempo ho anche perso il lavoro di giornalista – e ho dato una sterzata alla mia vita.Volevo essere più consapevole: unirmi al tutto. Essere un Uno e tornare a emozionarmi. Che è poi l’essenza vera e più intima dello yoga.

E così… eccomi qui. Oggi pratico yoga, faccio corsi, scrivo di yoga, parlo di yoga, rompo le scatole al mio compagno tutto il giorno sullo yoga (e lui non mi ha ancora mandato a stendere – ed è una grande cosa). Attualmente insegno in una piccola cittadina ai piedi delle montagne piemontesi, Pinerolo.

Odaka Yoga è il percorso che ho scelto, anche se è più appropriato dire che è stato lui a scegliere me, in qualche modo. E’ una delle discipline e dei metodi più innovativi dello yoga, nato da oltre trent’anni di ricerca e sperimentazione da parte di due italiani, Roberto Miletti e Francesca Cassia. Odaka Yoga parte dall’acqua, da quell’elemento che è fondamentale per la nostra vita e del quale siamo principalmente costituiti. Un elemento che non ha forma, ma che può assumere tutte le forme, fluendo libero.