Yoga e Resilienza

Piegarsi senza spezzarsi: questa potrebbe essere la giusta definizione di resilienza…
Essa rappresenta il modo di affrontare le difficoltà, vivere momenti difficili senza lasciarsi sopraffare… senza cadere nella depressione né nella disperazione.
Resilienza e speranza vanno a braccetto.
In psicologia la resilienza è la capacità dell’essere umano di sopportare le avversità, di non arrendersi di fronte alle “intemperie”, ma piuttosto di combatterle fino al loro superamento totale. E’ la facoltà di non demordere.
Anche la pazienza accompagna la resilienza e sicuramente in parte l’accettazione.

La resilienza prevede un cambio di punto di vista, come nello Yoga le asana che prevedono inversioni, perché a volte per superare le avversità bisogna imparare a vedere le cose in maniera diversa abbandonando i soliti schemi di pensiero. Le difficoltà spesso portano all’impossibilità di vivere la vita come si era sempre fatto, bisogna rompere le abitudini in essere per sostituirle con nuove e magari migliori sotto vari punto di vista (oggi più che mai siamo chiamati a cambiare le nostre abitudini, in questi tempi di covid19).

Il concetto di resilienza può essere avvicinato all’immagine della canna di bambù.

In Cina (sperando non sia un tabù nominarla) gli agricoltori coltivano questa pianta dalla crescita decisamente insolita. E’ una pena per loro seguire il suo progresso perché più che lento, sembra praticamente nullo. Il primo anno di vita l’arbusto cresce pochissimo. Il secondo anno va pure peggio. L’albero non cresce e neanche il terzo ed il quarto anno. Ma se uno decide di non lasciarsi abbattere e di continuare a sperare portando pazienza allora viene a scoprire che il quinto anno finalmente le canne crescono superando 10 metri di altezza in circa 6 settimane.

Durante quegli anni in cui la pianta sembra ferma, sviluppa solide radici nel sottosuolo che le permetteranno successivamente di crescere in altezza senza il rischio di crollare. Anche nello Yoga il lavoro sulle radici è fondamentale… ci permettono di radicarci, di affermare noi stessi, capire il nostro potenziale andando a lavorare a livello energetico sui primi tre chakra, quelli più connessi alla terra. Da lì il viaggio è verso l’alto, il cielo, i sentimenti più puri, la conoscenza e l’introspezione. Ma tutto parte dalla terra, dai piedi, dalle nostre radici .. senza radici forte non possiamo spiccare il volo.

Ma il bambù viene associato alla resilienza anche per la sua estrema flessibilità che gli permette di piegarsi, ma soprattutto di resistere e non spezzarsi.

E come non pensare allo Yoga quando si parla di flessibilità. Abbiamo spesso davanti a noi le immagini di corpi flessuosi in grado di assumere posizioni che vanno quasi oltre l’umano. Ma siamo sicuri che quello sia effettivamente Yoga? Una mia insegnante di Yoga (a cui devo il fatto di avere reso lo Yoga centrale nella mia vita) mi diceva che spesso in corpi estremamente flessibili possono nascondersi menti molto rigide. A volte viviamo la pratica dello Yoga come una ricerca del perfezionismo dell’esecuzione irrigidendoci dentro schemi mentali molto definiti e poco travalicabili. Lo Yoga è invece flessibilità nel senso di capacità di accettare i nostri limiti, provare a superarli, ma sempre nell’estremo rispetto di noi stessi. Capita spesso che un asana non “venga” e magari ci obblighiamo in tutti i modi ad assumerla anche se ci arrechiamo dolore solo per essere “perfetti” per dimostrare a noi e agli altri chi siamo. E’ proprio in questi momenti che dobbiamo imparare a lasciare andare, fermarci all’asana preparatoria, essere umili, accettare ed amare quel corpo che in quel momento non riesce in quello che la mente vorrebbe. E’ proprio in quel momento che siamo davvero flessibili e che stiamo praticando davvero yoga.

Quello che ci deve accompagnare nella nostra pratica è proprio una sana e realistica capacità di intendere e volere basata su un costante e paziente lavoro su se stessi alla ricerca non del perfezionismo o della perfezione, ma di una serena accettazione rivolta al miglioramento continuo.

La resilienza è proprio questa accettazione rivolta al miglioramento. E’ un profondo lavoro su se stessi.

Lascio ora spazio alle parole di un lama buddista, Lama Gangchen, che mi paiono ben sintetizzare la resilienza: “Non cercare di cambiare la tua vita, cambia il tuo atteggiamento verso la vita. Nella tua mente c’è abbastanza spazio per trovare nuove soluzioni. La felicità è dentro di noi. Se guardiamo nella direzione sbagliata non possiamo vederla”.

Questo Articolo è tratto dal blog Savitri Magazine di Massimo Mannarelli e Sibilla Vecchiarino, che si ringraziano per il prezioso contributo.

Sibilla Vecchiarino. Praticante di Yoga da circa 20 anni e insegnante (certificata CONI) dal 2014. Ha studiato e conseguito il proprio diploma di insegnante presso Sathya Yoga di Monza, scuola di Amrita Ceravolo. Ha altresì diploma di insegnante dei 7 Riti Tibetani conseguito con la Maestra Silvia Salvarani.

Ha tenuto corsi in vari centri del milanese e oggi insegna a Milano presso La Voce del Corpo. Tiene seminari con il marito Massimo Mannarelli con cui ha approfondito e studiato il collegamento tra Yoga e preghiera islamica e Sufismo.

Collabora fin dalla sua nascita con la testata dedicata allo Yoga “Yoga Magazine“. Insieme al marito scrive sul blog Savitri Magazine, diario del percorso di conoscenza e del cammino spirituale dei suoi fondatori. Ha viaggiato in Iran e India dove ha conosciuto luoghi sacri di diverse tradizioni e ne ha approfondito lo studio.

Yoga e Klesa. Le afflizioni mentali e il metodo yoga che rimuove la sofferenza [Cristiana Biogli, Sergio Busi]

IL PERCHÉ DEL LIBRO

Questo libro nasce per far luce sul significato dello yoga prendendo a riferimento gli Yogasūtra di Patañjali visto che oggigiorno il termine yoga è spesso usato per offrire attività che forse con lo yoga hanno poco a che fare e gli Yogasūtra sono chiamati in causa per dare credito e validità a pratiche che con il testo non hanno nulla a che vedere. Lo yoga non è una ginnastica esotica ma un esercizio meditativo pensato per trasformare le percezioni che abitualmente sono erronee e cariche di afflizione, in un modo di vedere la realtà portatore di verità e felicità. Quando la mente è confusa genera sofferenza e quando la mente è chiara e limpida genera felicità. Gli Yogasūtra ci dicono che lo scopo dello yoga, e del resto di tutta la filosofia classica indiana, è la cessazione di ogni disagio e, quindi, il sorgere dell’autentica felicità attraverso un rigoroso percorso di concentrazione meditativa.

PER CHI È

Con tutti i suoi limiti, questo libro è pensato per i praticanti di yoga, come strumento di studio dello Yogadarśana e della teoria dei kleśa, che ne è il cuore e il presupposto; è pensato per gli studiosi di filosofia, come occasione per entrare in contatto con il pensiero filosofico indiano, scoprendone la logica e le modalità di indagine, affinità e divergenze con quello occidentale; è pensato, infine, per chi al momento è scettico, perplesso e confuso ma interessato a cosa sia e a cosa serva lo yoga, oggi.

CHE VANTAGGI, CONOSCENZE, STRUMENTI OFFRE AI LETTORI

Lo studio della prima parte del libro aiuta a comprendere i concetti chiave degli Yogasūtra: kleśa, draṣṭṛ dṛśya, dṛśi, puruṣa, prakṛti, guṇa, citta, vṛtti, saṃskāra, karma, dhyāna, nirodha, samādhi, kaivalya; e offre una visione globale della filosofia dello yoga espressa nel testo.
La seconda parte del libro analizza le cinque afflizioni mentali esposte negli Yogasūtra: ignoranza (avidyā), senso dell’io (asmitā), attaccamento (rāga), repulsione (dveṣa), paura della morte (abhiniveśa); a tal scopo sono proposte le interpretazioni che di esse offrono gli altri sistemi (darśana) della filosofia indiana, con qualche rimando alla filosofia occidentale e alle recenti scoperte neurofisiologiche e fisiche. Indaga il funzionamento della mente (citta): i processi cognitivi erronei, prodotti dalle abitudini (saṃskāra) afflittive, e quelli corretti, prodotti dalla meditazione (dhyāna), che conducono alla liberazione dalla sofferenza.

DI CHE TRATTA IL LIBRO?

Abitualmente noi non vediamo la realtà così come è, la vediamo attraverso l’opaco filtro del nostro io che si costruisce attraverso ciò che ci piace, a cui ci attacchiamo, e ciò che non ci piace, che invece respingiamo. Crediamo di essere liberi di scegliere e agire ma, in realtà, siamo condizionati dai samskāra, le esperienze di piacere e dolore che abbiamo fatto nel passato e che rimangono attive, come propulsive tracce latenti, nella nostra coscienza e orientano il nostro pensare e agire nel presente. La realtà non è come ci appare e questa apparenza è la causa della nostra sofferenza.
Ora, in Patañjali la sofferenza (duḥkha) non è un termine vago, ma è ben specificata in cinque forme, cinque afflizioni (kleśa) che agiscono e dipendono l’una dall’altra, e creano le strutture della nostra mente ordinaria: noi soffriamo, cioè siamo inquieti, nervosi, insoddisfatti, confusi, agitati, depressi, perché le categorie mentali con cui percepiamo noi stessi, gli altri, gli eventi e il mondo non solo sono contaminate ma sono generate dalle afflizioni. I cinque kleśa, l’oggetto principale del libro, sono:

  • avidyā, l’ignoranza, la predisposizione innata a non vedere come stanno realmente le cose, il non-vedere la realtà per ciò che essa è davvero;
  • asmitā, il senso dell’io, sempre insoddisfatto che crede di essere ciò che non è, e che perciò, appropriandosi idealmente di ciò che vorrebbe essere, è costantemente teso verso una forma di sé (cittavṛtti) immaginata come definitiva e appagante, che però di fatto è dualistica e conflittuale, confusa, nervosa e depressa;
  • rāga, l’attaccamento al piacere, il desiderio di voler ripetere un’esperienza ritenuta piacevole in passato per mettere a tacere la sofferenza del presente;
  • dveṣa, la repulsione al dolore, la tensione che respinge tutte le sensazioni e le esperienze che in passato sono state spiacevoli come se fosse possibile il loro definitivo evitamento per ottenere, in questo modo, la felicità;
  • abhiniveśa, la paura della morte e il desiderio ossessivo di mantenere e prolungare la propria vita, attaccandosi a ciò che per sua natura è impermanente come se fosse permanente.

La mente è l’artefice principale della nostra sofferenza, ma essa è l’artefice principale anche della nostra felicità. Lo Yogadarśana ci dice che questa è una buona notizia perché possiamo trasformarla. Lo Yoga, infatti, nella sua celeberrima ottuplice forma (aṣṭāṅgayoga), è un metodo sviluppato per eliminare tutti gli ordinari meccanismi della mente generati dai kleśa e risalire alle origini della pura capacità di percezione, della pura consapevolezza (dṛśi, citi, citiśakti, puruṣa), isolata da tutto il resto (kaivalya), risplendente di luce sua propria, capace di ‘vedere’ come stanno davvero le cose senza più alcun filtro mentale. Gli Yogasūtra espongono un programma di meditazione (prajñā, dhyāna, dhāraṇā, samādhi) ben strutturato attraverso il quale lo yogin può comprendere la sofferenza, farla cessare (nirodha) e realizzare la natura incontaminata della coscienza, vedendo direttamente la realtà per ciò che essa è davvero, senza alcun filtro.
Non è pertanto lecito proporre una pratica yoga incentrata esclusivamente sull’esercizio delle posture fisiche rifacendosi agli Yogasūtra poiché essi non promuovono esercizi fisici salutistici fini a sé, ma tecniche di concentrazione che mirano a sradicare il modo abitudinario ed erroneo di percepire la realtà. La pratica degli āsana è molto importante per contrastare l’indebolimento, l’indolenza e l’agitazione del corpo, per sciogliere gli stati di tensione, rigidità e dolore che impedirebbero al corpo di stare fermo (nirodha) in una postura assisa, stabile e confortevole, a lungo e regolarmente, ed essere così un valido sostegno all’introspezione meditativa. Ma non si può pensare di “fare yoga” senza meditare.

Surya Namaskara, quando è nato il Saluto al Sole?

A differenza di quanto ritenuto comunemente il famosissimo Saluto al Sole (Surya Namaskara) non ha antichissime origini ed è praticamente sicuro che ai tempi dei Veda (oltre 2.000 anni fa) nessuno lo praticasse. C’era ovviamente il culto del sole, ma non la sequenza di asana oggi eseguita in tutto il mondo.
surya namaskaraTra i pochissimi che ancora provano a sostenere tali origini antiche c’è Christopher Tompkins che si è focalizzato sulla setta proto-tantrica Pāśupata nata a partire dal II secolo. Secondo Tompkins le pratiche di circumnavigazione del linga rappresentante il “sole” Siva proprie di questa setta sarebbero da accostare al Surya Namaskara come sua vera origine storica. Egli sostiene che all’interno di queste “camminate” rituali venivano usate pose corporee riprese dalla tradizione della danza sacra indiana rintracciabili nel Nātyaśāstra, l’opera indiana più importante dedicata all’arte teatrale. È difficile però incontrare in quest’opera descrizioni che possano ricordare la sequenza del saluto al sole.

Risulta anche difficile dimostrare che Krishnamacharya, come invece pretenderebbe Tompkins, conoscesse il commento ai Pāśupata Sūtra. Anche oggi nelle montagne sacre indiane si possono vedere sadhu che seguono quei modelli di camminata probabilmente non diversi da quelli di cui sopra. Classica è la sequenza costituita dal lancio di una pietra davanti a sé, inginocchiamento ritmico, prostrazione totale del corpo, ripresa della pietra in mano, alzata, un altro passo (o pochi passi avanti) e ancora lancio della pietra, ecc. È una pratica nota con il nome di dandavat parikrama. In questa sequenza, giocando di fantasia, potrebbe essere possibile ravvisare alcuni movimenti che potrebbero far pensare ad asana del saluto al sole: in particolar modo Chaturanga Dandasana e Bhujagasana. Ma le analogie sono troppo lontane.

Gli storici dello yoga tendono a riportare le origini del Surya Namaskara all’inizio del XX secolo. Una prima testimonianza si trova nelle pubblicazioni di Bhavanarao Pant Pratinidhim (1868-1951), raja di Aundh, piccolo principato dell’India governato dai britannici che nel 1928 scrisse Surya Namaskars (Sun Adoration)  for Health, Efficiency and Longevity.

Bhavanarao era il terzo figlio e pareva non destinato a governare. A differenza, quindi, di molti principi si dedicò agli studi. Era molto interessato all’arte ed alla cultura fisica ed in particolare per quanto riguarda quest’ultima approfondì la conoscenza del wrestling e del mallakhamb (sport tradizionale indiano in cui si eseguono posture yoga aeree e prese di wrestling in concerto con un palo fisso in legno). Praticava lui stesso gli esercizi di Sandow, un tedesco considerato ai tempi l’uomo più forte d’Europa e molto famoso in India probabilmente perché ai tempi gli indiani cercavano di ricostruire una identità di popolo “muscolarmente” forte perché spesso considerati deboli dagli Inglesi. La diffusione del body building di Sandow fu permesso anche dai numerosi libri (anche fotografici) che lui pubblicò.

Non è chiaro come Pant arrivò alla definizione della sequenza del Surya Namaskara. Nella sua biografia si dice solo che: “il raja stesso svolgeva questi esercizi di devozione al sole, molto regolarmente da quando il suo collega ed amico il vecchio raja di Mirai gli consigliò di farli”.

Egli insistette dapprima che i suoi figli lo praticassero e successivamente tutti i ragazzi a scuola. Nel 1923 scrisse un libro in Marathi su tale pratica che fu poi tradotto in inglese.

Egli vedeva in questa sequenza una alternativa tipicamente indiana agli stili ginnici di matrice europea. Il Surya Namaskara veniva visto come esercizio per l’allungamento e il rafforzamento dei muscoli e delle articolazioni, una pratica che servisse a lavorare sul corpo nel suo complesso e dunque il saluto al sole veniva considerato come pratica prettamente salutistica.

Nel 1927 spiegò al “Times  of India” i benefici di questa pratica: “La grande particolarità ed importanza della pratica del Namaskara consiste nel fatto di poter essere eseguito in qualsiasi ora, in qualsiasi stagione, a tutte le età e sia da uomini che donne” (quest’ultimo è senz’altro un elemento di grande modernità visto quanto poco lo yoga fosse pensato per le donne. Pensate a quanto faticò Indra Devi, donna e pure occidentale, a farsi accettare come allieva da Krishnamacharya).

Il raja considerata la grande importanza che attribuiva alla pratica decise di portarla all’estero. Egli fece girare un piccolo filmato e lo diffuse in tutti i paesi che visitò. Quando arrivò in Inghilterra una giornalista (Louise Morgan) ne fu così affascinata da scrivere una serie di sei articoli per il News Chronicle, famoso quotidiano dei tempi. Gli articoli erano corredati da fotografie dello stesso “inventore” della pratica e di uno studente di Oxford.

L’interesse che queste pubblicazioni suscitarono lo portarono nel 1938 a scrivere il libro “The Ten-Point Way to Health. Surya Namaskars”.

Anche il figlio di Pant Pratinidhim, Apa, che intraprese la carriera del diplomatico quando Aundh ritornò in mano al governo indiano, scrisse nel 1970 un’operetta sul Sūrya Namaskāra:  “Surya Namaskar, an Ancient Indian Exercise”.

Tutti questi trattati sul saluto al sole difficilmente parlano di Yoga e questo fa capire come le due pratiche non fossero considerate correlate.

Nel bellissimo libro “The Yoga Body”, Mark Singleton afferma che il Sūryanamaskāra sia stato inventato proprio da Patinidhi Pant, nonostante il Rāja più volte affermi nel suo testo, secondo un modello espositivo tipicamente induista, che non si tratti di una sua invenzione, bensì di una tradizione di antica origine marathi. Tuttavia, come ben sottolinea Singleton, non esiste alcuna prova testuale esplicita che la sequenza Sūryanamaskāra sia stata praticata prima del XX secolo.

Successivamente a tali pubblicazioni la notorietà di questa sequenza continuò a crescere soprattutto a Mysore, grazie a Krishnamacharya.

All’inizio degli anni ’30, Krishnamacharya aveva assegnato ad un altro insegnante (suo allievo) una classe di di preparazione fisica allo yoga in cui veniva praticato il Surya Namaskara, oltre a forme di allenamento di estrazione occidentale (non molto yogiche, quindi). Successivamente tale classe di allenamento fu fusa con quella seguita direttamente dal famoso maestro indiano e questo induce a ritenere  che il saluto al sole non fosse ritenuta una sequenza di asana, ma di movimenti preparatori allo Yoga vero e proprio.

Krishnamacharya presentò il Surya Namaskara nello Yoga Makaranda, scritto nel 1934 (quindi alcuni anni dopo Pant Pratinidhim). Sembra certo che Krishnamacharya fosse stato influenzato nella messa a punto del suo stile dalla tradizione ginnico-marziale praticata nella casa reale di Mysore, dall’addestramento militare britannico (pare quasi incredibile che qualcosa di militare ed occidentale sia presente nello yoga che oggi noi pratichiamo) e, ovviamente, dalla pratica spirituale: è ovviamente l’enfasi sul respiro e sulla devozione che distinse il suo insegnamento dello yoga da una dimensione puramente atletica insieme alla componente “vinyasa” ossia di collegamento dei vari asana in una dinamica fluida.

Allievi di Krishnamacharya divenuti a loro volta maestri sono stati fondamentali nella strutturazione di larga parte della storia dello yoga moderno: basti pensare a Pattabhi Jois, fondatore dell’Asthanga Yoga o a B.K.S. Iyengar, fondatore dello Iyengar Yoga, o a Indra Devi. Questi (e altri) maestri hanno continuato a insegnare il Sūrya Namaskāra a migliaia di allievi di tutte le nazionalità. Tra i più importanti “divulgatori” del Surya Namaskara negli USA (ed in particolare in California, dove già pochi anni prima aveva insegnato anche Pattabhi Jois) si ricordano l’insegnante di Ashtanga Yoga, Tim Miller, e l’insegnante di Iyengar Yoga, Roger Cole.

E così il saluto al sole è diventato uno dei pilastri della pratica attuale dello yoga anche se nato come separato dallo stesso sebbene nella stessa patria e respirando la medesima aria. Studiando si può comprendere sempre di più come il “nostro” concetto di Yoga (per quanto spesso definito tradizionale da maestri ed insegnanti di vario tipo) sia molto lontano e distante da quello che l’India ha sempre definito Yoga (basti vedere la scarsa importanza data alle asana da Patanjali, ma anche da Vivekananda che portò lo Yoga in occidente alla fine del XIX secolo).

Questo Articolo è tratto dal blog Savitri Magazine di Massimo Mannarelli e Sibilla Vecchiarino, che si ringraziano per il prezioso contributo.

Sibilla Vecchiarino. Praticante di Yoga da circa 20 anni e insegnante (certificata CONI) dal 2014. Ha studiato e conseguito il proprio diploma di insegnante presso Sathya Yoga di Monza, scuola di Amrita Ceravolo. Ha altresì diploma di insegnante dei 7 Riti Tibetani conseguito con la Maestra Silvia Salvarani.

Ha tenuto corsi in vari centri del milanese e oggi insegna a Milano presso La Voce del Corpo. Tiene seminari con il marito Massimo Mannarelli con cui ha approfondito e studiato il collegamento tra Yoga e preghiera islamica e Sufismo.

Collabora fin dalla sua nascita con la testata dedicata allo Yoga “Yoga Magazine“. Insieme al marito scrive sul blog Savitri Magazine, diario del percorso di conoscenza e del cammino spirituale dei suoi fondatori. Ha viaggiato in Iran e India dove ha conosciuto luoghi sacri di diverse tradizioni e ne ha approfondito lo studio.